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CODEX PURPUREO ROSSANENSIS

Ci Thorno

01 Giugno 2020

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I primi segni del Cristianesimo  nell’antica Sibaritide risalgono agli inizi del II secolo.
Da Thurii, infatti, colonia panellenica fondata da Atene  in luogo dell’opulenta Sibari, proveniva San Telesforo, vescovo di Roma e Papa dal 125 al 136.
Nei documenti ufficiali Thurii compariva come sede vescovile  nel V secolo. Secondo l’archeologo Paolo Orsi, essa era già diocesi alla fine del IV secolo, come si evince da un frammento di lapide ritrovato nel monastero di S. Adriano, in S. Demetrio Corone.
Dopo il 680 non abbiamo più notizie di questa diocesi. Tra la fine del VII e gli inizi del VIII secolo i vescovi di Thurii  decisero di trasferirsi altrove,  a causa delle continue scorrerie e dei saccheggi perpetrati nella città. Proprio a seguito della conquista della cittadina sibarita da parte del nemico saraceno, i vescovi furono costretti ad interrompere i rapporti con la città pontificia.
Questo momento segna l’inizio della decadenza di Thurii a favore  della città di Rossano che viene, così, proiettata verso quel ruolo politico e religioso che le consente, in poco tempo, di affermarsi e di richiamare su di sé l’attenzione della elegante  aristocrazia della corte orientale. Alcuni storici locali del secolo scorso e del XIX sostenevano la tesi oggi confutata e superata che la diocesi di Rossano avesse avuto origine nel 625 e che tale data coincidesse con l’arrivo del Codex Purpureus in città.
Più accreditata è  l’ipotesi che la diocesi di Rossano sia nata nel secolo successivo, quando la città iniziò ad essere un importante centro di vita civile, amministrativa e militare. Proprio in questo periodo viene nominato un Papa rossanese con il nome di Giovanni VII, pontefice  dal 705 al 707. Affascinante l’ipotesi che il  trasferimento dalla sede di Thurii a quella di Rossano sia  da attribuire al Santo Padre, nativo di Rossano. Più plausibile, tuttavia, che il trasferimento da Thurii a Rossano,  nel momento della sua acme politica e culturale, sia stato determinato dal  riassetto politico, amministrativo e religioso avviato dai bizantini.
Nel X secolo Rossano è già un affermato centro di cultura bizantina. In seguito all’invasione di Reggio Calabria da parte dei Saraceni, la sede dello Stratega si sposta nella cittadina dell’alto Ionio per diventare, da quel momento in poi, il più importante centro bizantino della Calabria, con il conseguente richiamo in città di numerosi funzionari, patrizi e impiegati imperiali.
Sono gli anni di Giovanni Filagato, più tardi conosciuto come l’antipapa che, grazie alla sue competenze culturali, approda alla corte di Ottone II in qualità di cancelliere imperiale, divenendo il precettore del piccolo Ottone III e del nipote Brunone (futuro papa Gregorio V).
E’ l’epoca di Shabbettai Donnolo, medico, farmacologo e astrologo, insigne rappresentante della cultura ebraica dell’Alto Medioevo. Autore di trattati in lingua ebraica,  fu tra i primi ad aver redatto testi di medicina nell’Europa medievale, nel ruolo di medico alla corte del governatore bizantino, come tramanda San Nilo, illustre esempio  della spiritualità e della cultura che si respira in città, eccellente calligrafo e innografo, studioso delle  Sacre Scritture e della vita dei Padri del deserto.
Testimonianze emblematiche della Rossano bizantina, conservate a tutt’oggi nella  città ,  sono, in primo luogo, l’icona dell’Achiropita, della quale si segnala  l’imponente  culto da parte della comunità rossanese, le chiesette bizantine di San Marco e della Panaghia, all’interno delle quali sono stati rinvenuti alcuni affreschi di grande pregio,  ed il famoso Codex Purpureus.

Il Codex purpureus Rossanensis

Dati bibliografici

ll Codex purpureus Rossanensis, che si annovera da tempo immemorabile tra i beni della Cattedrale e dell’Arcivescovado della città, è custodito dal 18 ottobre 1952 presso il Museo Diocesano di Arte Sacra.  Citato per la prima volta nel 1831 da Scipione Camporota, canonico della Cattedrale cui si deve una prima sistemazione e l’attuale numerazione con inchiostro nero delle pagine, fu portato agli onori delle cronache nazionali nel 1846  dallo scrittore e viaggiatore Cesare Malpica nel saggio “La Toscana, l’Umbria e la Magna Grecia: impressioni”. Nel 1880 gli studiosi tedeschi Oskar von Gebhardt e Adolf von Harnach pubblicarono a Lipsia lo scritto  “Evangeliorum Codex Graecus Purpureus Rossanensis”, presentando così l’evangeliario all’attenzione della cultura europea ed internazionale.

Problemi filologici

Numerosi studi e ricerche di notevole spessore scientifico, da più di un secolo, stanno impegnando storici, paleografi, studiosi d’arte bizantina, neo-testamentari ed esperti di filologia biblica nella risoluzione di due problemi filologici:
– dove è stato realizzato il Codex e quando?
– quando e da chi è stato portato a Rossano?
Per quanto concerne il primo quesito, la teoria che trova maggiore credito  è che il manoscritto adespoto sia opera di una produzione scrittoria di un centro dell’Oriente. Sull’ubicazione precisa di tale centro, tuttora, non c’è conformità di pareri tra i ricercatori. Alcuni sono dell’avviso che il luogo d’origine sia la Siria, in particolare la città di Antiochia, oppure un centro dell’ Asia Minore, precisamente la Cappadocia o Efeso. Altri  pensano ad Alessandria d’ Egitto, quale città d’origine. Altri ancora optano per Costantinopoli.
Quasi tutti i ricercatori suddetti concordano nel datare il codice intorno alla metà del secolo VI. La professoressa Fernanda de Maffei dell’Università di Roma sostenne, con una serie di studi e relazioni effettuate tra il 1974 e il 1978, che il Rossanensis sia stato realizzato in Cesarea di Palestina e che la data di stesura sia da anticipare alla prima metà del secolo V. A quanto pare, quest’ultimo studio è quello che maggiormente viene apprezzato e riconosciuto come valido e verosimile per ciò che concerne la realizzazione e la datazione dell’evangeliario.
Per quanto concerne il problema delle modalità e dei tempi  di arrivo del Codex, la maggior parte degli studiosi asserisce che a condurlo a Rossano siano stati i monaci iconoduli, migrati dall’Oriente nell’Italia meridionale, quindi  anche in Calabria, per sfuggire all’odio iconoclasta dei bizantini intorno alla metà del VIII secolo.
Una di queste comunità di monaci si stabilì in uno dei tanti monasteri rupestri ipogei, costituiti da grotte arenaree del tipo lauritico, che formano la “Montagna Santa” della città jonica.

Il Codex e il rito greco-orientale

Quasi certamente il Codex veniva usato durante la Messa, dato che la diocesi di Rossano era  fortemente legata al rito di lingua greca,  praticato fino al 1462 circa, nonostante ovunque fosse già in uso quello latino.
Dopo lo scisma della Chiesa Orientale, infatti, i Normanni conquistarono l’Italia Meridionale, riportando le diocesi calabresi sotto la giurisdizione di Roma e avviando l’opera di latinizzazione della lingua e delle strutture. Rossano, dove la cultura e la tradizione greca erano più radicate, reagì contro questa politica ed ottenne che le venisse concesso il mantenimento del rito greco. Il conte Ruggero, considerata la delicata situazione politica e, nel contempo, per ingraziarsi clero e popolazione, elevò Rossano al rango di Arcidiocesi (1085), chiedendo come contropartita il passaggio sotto la giurisdizione di Roma e, di conseguenza, al rito latino, fortemente sostenuto dall’ arcivescovo di Reggio Calabria, Mons. Matteo Saraceno. In questa fase, inevitabilmente, i testi greci caddero in oblio e  furono archiviati. In un inventario del Settecento si parla di circa trenta libri scritti in greco e custoditi nella sacrestia della Cattedrale. Il progressivo disinteresse  e la dimenticanza,  seguito al disuso liturgico dei testi, condusse,  verosimilmente, allo smarrimento o alla distruzione della maggior parte di essi, inclusi i Vangeli di Giovanni e Luca, di cui il Codex  è mutilo.

Il Codex modello di pregiati manoscritti greci

Durante il periodo in cui fu in auge il rito greco, è verosimile che il Rossanensis abbia  influenzato l’attività scrittoria testimoniata nella città a partire dal IX-X secolo. Vi sono, infatti, manoscritti greci sia in maiuscola che in minuscola, oggi sparsi per il mondo,  i quali sembrano essere stati scritti in loco tra i secoli IX-X. La presenza di alcuni manoscritti in Calabria, pervenuti al pari del Codex Purpureus dall’Oriente, forse anch’essi custoditi a Rossano, tra cui alcuni fogli di un codice di Cassio Dione del V secolo, Vat. Gr. 1288, puo’ essere stata fonte di ispirazione per

i monaci amanuensi che a Rossano avrebbero continuato l’attività di trascrizione dei testi sacri.
L’attività scrittoria, di cui anche il Santo Patrono della cittadina di Rossano, San Nilo,  era attivo fautore, assieme alla successiva fondazione, sempre a Rossano, dell’abbazia del Patir, ove si produssero, si lessero e si conservarono manoscritti a partire dal XI secolo, avalla l’ipotesi che i manoscritti greci provenienti dall’Oriente, tra cui il Codex Purpureus, abbiano ispirato e fornito modelli  ai monaci amanuensi presenti ed attivi a Rossano.
Non è un caso che San Nilo (910-1004), fosse stato dell’ordine dei monaci basiliani, proprio come quelli che, secondo le ricostruzioni storiche, sarebbero arrivati a Rossano. Va sottolineato, inoltre, che  una serie copiosa di codici, custoditi nelle più prestigiose biblioteche d’Europa, provengono dallo scriptorium di San Bartolomeo di Simeri (1130), fondatore dell’ abbazia di Santa Maria Nuova Odigitria (o del Patir)  negli ultimi decenni del XII secolo, nel periodo di maggiore cratività e di produzione.  Tutto ciò si inserisce nel clima di intenso fervore culturale, artistico e religioso scaturito dalla presenza del Codice Purpureo a Rossano e dei monaci basiliani.

Descrizione del Codex

Il Codex Purpureus Rossanensis è uno dei più antichi evangeliari esistenti al mondo, reso oltremodo   prezioso grazie alle sue bellissime miniature.  Unico nel suo genere,  offre le sue miniature in un continuum esclusivamente visuale, come una serie di affreschi sulle mura di un’antica basilica cristiana, di cui rimangono esempi ben noti risalenti al periodo tra il IV e il VI secolo. Esso presenta i resti di un indipendente ciclo di miniature relative alla vita di Cristo, il più antico rimasto in un manoscritto greco.
E’ uno dei capolavori della letteratura evangelica.  La struttura complessiva del manoscritto mostra che in origine si trattava di un esemplare, in uno o due volumi, dei quattro Vangeli, preceduti dall’indice dei capitula. Con buona approssimazione si può dire che la parte conservata rappresenta circa la metà dell’intera opera.
E’ costituito da 188 fogli (376 pagine) contenenti l’intero Vangelo di Matteo e quasi tutto quello di Marco, mutilo quest’ultimo dei vv. 14-20 conclusivi dell’ultimo capitolo.
Il formato attuale del manoscritto misura mm. 300×250; lo specchio scrittorio è di mm 215×215 ca.
I fogli sono di pergamena accuratamente lavorata, tinta di colore purpureo, con discromie che, talvolta, si possono ritenere originarie ma, in più casi, dovute a fattori diversi, soprattutto umidità.
Il manoscritto è formato di regola da quinioni, cioè fascicoli di 10 fogli, iniziati con lato carne, disposti secondo la legge di Gregory (carne contro carne e pelo contro pelo) e segnati nell’angolo inferiore interno sul recto del primo foglio. Restano escluse da questa struttura le pp. 1-18, che sono parti introduttive, e le pp. 239-242, contenenti a p. 241 il ritratto di Marco. La tipologia e il sistema di numerazione dei fascicoli sono tipici della tarda antichità. Essi si ritrovano in alcuni manufatti, come nel cosiddetto Discordie di Vienna prodotto nel 512 circa.
Le colonne di scrittura misurano ciascuna mm.215×90 ca. con spazio intercolonnare di mm 35 ca. e contengono 20 righe.
Il Codex Purpureus Rossanensis nella lista internazionale dei manoscritti rari ecclesiastici, porta il suffisso alfabetico Ф e il numero 043. Il “Codex Purpureus Rossanensis Σ” è anche conosciuto come il Rossanensis. Deve il nome “Purpureus” al fatto che le sue pagine sono rossastre.
La scrittura in cui è vergato il testo dei Vangeli è la maiuscola biblica: si tratta di forme grafiche che si caratterizzano a partire dal tardo II secolo d.C., definendosi in norme precise già nel III e resistendo nelle pratiche librarie fino al IX secolo, sia pure con differenziazioni interne, geografiche e cronologiche. Nel codice di Rossano la maiuscola biblica mostra caratteri artificiosi, modulo monumentale, forte chiaroscuro e orpelli decorativi che ne indicano, da una parte, la collocazione cronologica tarda, dall’altra la funzione ideologico-sacrale ad essa sottesa. La scrittura dell’epistola di Eusebio a Carpiano è anch’essa una maiuscola biblica, ma di struttura gerarchicamente inferiore: mostra, infatti, modulo piccolo, chiaroscuro moderato, disegno piuttosto sobrio. In funzione di vera e propria scrittura distintiva è adoperata, invece, la maiuscola ogivale diritta, nella quale sono state vergate le scritte relative al repertorio iconografico, gli indici dei capitula, il colofone del Vangelo di Matteo, i riferimenti ai canoni eusebiani, le indicazioni di contenuto nei margini superiori, alcune integrazioni, le lettere/cifre di segnatura dei fascicoli. Si tratta, ancora una volta, di una scrittura di ascendenza antica ma definitasi più di recente, grosso modo nel V secolo, e testimoniata nel mondo bizantino più a lungo, fino al secolo XI, dalla maiuscola biblica. Tali scritture si devono ritenere opera di una stessa mano. Va, infine, segnalata la maiuscola adoperata a p. 241, nel ritratto di Marco, per la didascalia e sul rotolo che l’evangelista sta scrivendo: si tratta di una maiuscola molto elementare, semplice e dal carattere tutto artificiale che non trova  riscontro in manufatti né tardo-antichi né di età medio e tardo-bizantina. L’inchiostro adoperato è aureo per il titolo e  per le tre righe iniziali della prima pagina di ciascun vangelo, argenteo per tutto il resto.
Le miniature conservate nel codice di Rossano sono quattordici. Di esse, dodici raffigurano eventi della vita di Cristo (La Resurrezione di Lazzaro, L’ingresso di Gesù a Gerusalemme, Il colloquio con i sacerdoti e la cacciata dei mercanti dal tempio, La parabola delle dieci vergini, L’ultima cena e la lavanda dei piedi, La comunione degli apostoli, Cristo nel Getsemani, La guarigione del cieco nato, La parabola del buon samaritano, Il processo di Cristo davanti a Pilato, La scelta tra Gesù e Barabba), una fa da titolo alle tavole dei canoni andate perdute, e l’ultima è un ritratto di Marco, che occupa l’intera pagina. Tutte le miniature vennero dipinte su di una pergamena meno fine di quella usata per il testo dei Vangeli; a essa fu applicata una tinta purpurea diversa da quella adoperata per le pagine destinate al testo. La pergamena più spessa forniva una base più solida ai colori, mentre la tinta più opaca impediva alla miniatura dipinta sulla facciata di un foglio di essere vista rovesciata sull’altra facciata. Esso è strutturato in modo che miniature e testo risultano raggruppati in fogli distinti.
Il Codex Purpureus Rossanensis riveste uno straordinario interesse dal punto di vista sia biblico e religioso, sia artistico, paleografico e storico, sia documentario. Un documento simbolo di una regione, la Calabria, che ha mediato e tradotto in sintesi la civiltà greco-orientale e quella latino-occidentale.

http://www.codexrossanensis.it/

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