L’origine del castello di Corigliano Calabro è legata alla figura di Roberto il Guiscardo (Roberto d’Altavilla), il condottiero normanno d’aspetto gigantesco. Fu lui, secondo il suo biografo Goffredo Malaterra, a volere nel 1073[2] la costruzione di un fortilizio vicino Rossano, nell’ambito della linea di difesa realizzata in Valle Crati tra il 1064 e il 1080.[3] Rossano era allora ancora fortemente permeata di religiosità e cultura bizantina e frequenti erano gli episodi di ribellione verso i nuovi conquistatori. La vicina Corigliano, pur essendo solo un piccolo borgo arroccato sulla collina detta “del Serratore”, poteva subirne l’influenza e Roberto non voleva correre rischi. Da qui la decisione di costruire il castello che, secondo la tradizione normanna, aveva non tanto lo scopo di proteggere il territorio da pericoli esterni, quanto di far sentire alla comunità il peso del potere dominicale.
Il primo signore del castello di Corigliano fu un vassallo del Guiscardo, Framundo, proveniente da L’Oudon in Francia, al quale seguirono suo fratello Rinaldo e poi suo nipote Guglielmo.
Il presidio Castellare di Corigliano unitamente al presidio monastico castellare di san Mauro, sorti su monasteri, furono concessi dall’Imperatore Federico II di Svevia all’arcivescovo Cicala, in fidecommisso.
I Sanseverino
Dopo un secolo dalla costruzione della fortezza il re Tancredi di Sicilia concesse in feudo Corigliano e tutte le sue terre a Ruggero Sanseverino di Bisignano nel 1192.[4] I Sanseverino, destinati a diventare una delle famiglie più ricche e potenti del Regno di Napoli, mantennero il loro potere a Corigliano fino al 1616.[5]
Fu Roberto Sanseverino, conte di Corigliano tra il 1339 e il 1361, ad attuare gli interventi che cominciarono a trasformare radicalmente l’aspetto del castello tanto da mitigarne la primitiva immagine militare e renderlo in parte idoneo ad ospitare i membri della famiglia durante la loro permanenza a Corigliano. A questo periodo infatti risale la costruzione all’interno del lato sud della struttura di alcune importanti e comode stanze signorili. Geronimo Sanseverino, nato attorno al 1447, divenne conte di Corigliano nel 1472. Personaggio ambiguo dal carattere debole, influenzato da Antonello Sanseverino, principe di Salerno, suo parente, partecipò alla cosiddetta “congiura dei baroni” che nel 1485 venne ordita contro Ferdinando I d’Aragona.
La rivolta fallì e due anni dopo, nel luglio del 1487, Geronimo assieme ad altri baroni meridionali venne arrestato per alto tradimento e rinchiuso nelle carceri di Castelnuovo dove morì. Sua moglie, Giovanna Gaetani riuscì a salvarsi solo grazie ad una avventurosa fuga che la condusse esule in Francia. A Geronimo vennero anche confiscati tutti i suoi beni, compreso il castello di Corigliano Calabro, affidato al comandante castrovillarese Sansonetto Musitano.[6]
In seguito a questi gravi avvenimenti, il re aragonese si convinse ancora di più della necessità del potenziamento già in atto del sistema difensivo e repressivo del regno, con particolare attenzione alle fortezze, alle torri e ai castelli. Il figlio di Ferdinando, Alfonso, duca di Calabria e poi re di Napoli, effettuò un viaggio di ispezione in Calabria dal 2 gennaio al 22 aprile del 1489[7], accompagnato dall’architetto fiorentino Antonio Marchesi da Settignano, allievo di Francesco di Giorgio Martini il più grande architetto militare del tempo. La folta comitiva reale soggiornò a Corigliano dal 20 al 22 marzo[senza fonte] ed in quell’ occasione furono decisi i lavori di ristrutturazione e consolidamento che avrebbero dato al castello di Corigliano la caratteristica impronta “aragonese“. Venne rafforzato il potente mastio collegato al castello tramite un ponte levatoio, fu allargato e reso più profondo il fossato su cui si poggiavano le scarpate delle torri di cui tre di loro sono più piccole e incastonate alla struttura quadrangolare, venne anche rafforzato il ponte levatoio principale protetto dal rivellino piccola struttura importante per la difesa del ponte stesso. I lavori si conclusero nel 1490.[5]
Dopo la vittoriosa conquista del Regno di Napoli da parte del re francese Carlo VIII ai Sanseverino vennero restituiti i beni loro confiscati (la contea e il castello di corigliano) da Ferdinando d’Aragona al tempo della celebre congiura dei baroni il 1º maggio del 1495.[8] Fu Bernardino, figlio primogenito di Geronimo, il beneficiario del decreto reale di restituzione dei beni. Agli inizi del Cinquecento cominciò per Corigliano una costante crescita demografica.
Pietro Antonio Sanseverino passò alla storia per la sua eccezionale prodigalità. A lui e la moglie Elena Castriota, pronipote dell’eroe albanese Giorgio Castriota Scanderbeg, si deve l’accoglienza dell’imperatore Carlo V, di ritorno dalla spedizione di Tunisi, nel castello di San Mauro[9] dal 9 al 12 novembre del 1535.[10]
Nel 1538[5] il terribile pirata Aruj Barbarossa, nel corso di una delle sue incursioni in Calabria alla ricerca di schiavi e ricchezze, rivolse il suo attacco al territorio di Corigliano.[11] I coriglianesi, dopo una vana resistenza erano sul punto di cedere quando Pietro Antonio Sanseverino, sedicesimo conte di Corigliano, fece diffondere la notizia che un suo servo avevo sognato san Francesco da Paola che gli aveva predetto una sicura vittoria contro i barbari incursori.[12] Rassicurati da questa profezia, i cittadini si raccolsero nel castello e attorno alle porte delle mura cittadine, dopo una strenua resistenza riuscirono ad avere la meglio sui corsari guidati dal Barbarossa.
Circa il 1540 Piero Antonio Sanseverino, dopo avere fatto in parte abbattere ed in parte rimaneggiare la parziale soprastruttura che vi aveva fatto aggiungere il suo avo Roberto Sanseverino, vi fece costruire, ad iniziativa della sua seconda moglie Elena Castriota, delle stanze più vaste e sontuose.[13] Alla morte di Piero Antonio, nel 1559, lasciò un patrimonio dissestatissimo. Nicola Bernardino, che gli succedette, non seppe riportare ordine dello stato delle finanze. Continuò a spendere senza alcuna moderazione, attingendo a piene mani al patrimonio familiare, fino alla sua morte, avvenuta a Napoli nel 1606.
I Saluzzo
Nel 1616, il feudo di Corigliano e San Mauro, il più grande di casa Sanseverino, già confiscato dal potere regio per debiti arretrati, venne posto in vendita per sanare, almeno in parte, gli ingenti debiti.
Gli acquirenti furono i baroni Agostino e Giovan Filippo Saluzzo, figli del ricco mercante genovese Giacomo, che pagarono, ciascuno per la sua metà, la somma complessiva di 315.000 ducati.[14] L’acquisto fu perfezionato da un prestanome, Vincenzo Capece, per evitare il “vallimento”, tassa dovuta alla Regia Corte dagli stranieri che si rendevano proprietari di feudi nel Regno di Napoli.
I nuovi signori del feudo non riuscirono ad impedire il degrado ed il progressivo impoverimento del territorio. Aumentarono in pianura le zone paludose, riprese ad imperversare la malaria, mentre l’eccessivo sfruttamento fiscale degli Spagnoli provocava malcontento ed agitazioni sociali.
Nel 1647 il popolo di Corigliano si riversò in armi attorno al castello, stanco del potere feudale dei Saluzzo, diventato particolarmente vessatorio e rapace. Era il 18 luglio, appena un giorno dopo l’inizio della rivolta anti spagnola scoppiata a Cosenza e dieci giorni dopo lo scoppio rivoluzionario napoletano guidato da Masaniello. Il motivo fu il rifiuto del governatore della città di applicare un decreto vicereale che aboliva una tassa sulla farina. Alla testa della sommossa si mise il sindaco di Corigliano, Alessandro Mezzotero, affiancato dai notabili locali che speravano così di liberarsi di un feudatario diventato troppo esoso. La protesta ebbe successo e il governatore tre giorni dopo firmò lo statuto con cui, tra l’altro, si riconosceva l’indebita appropriazione di beni pubblici e privati da parte del feudatario e si garantiva la libertà di commercio e di iniziativa economica. Ma Agostino II Saluzzo, piombato a Corigliano, si rifiutò di ratificare l’accordo. Una nuova ondata di disordini allora cambiò carattere alla rivolta, tanto che la frazione popolare assunse il controllo della città, sotto la guida di Pompeo Perrone. Il Saluzzo si barricò nel castello e qui riuscì a resistere per alcuni mesi persino quando fu assalito e assediato a lungo dalle truppe rivoltose repubblicane guidate da Marcello Tosardo.